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Immagine del redattoreLa Contrada TeatroStabilediTrieste

TEATRO“Un sogno a Istanbul” in scena al Duse di Bologna. Nisi: «Storia di un amore in un’Europa che ha perso la sua anima» - NDS | NOTIZIE DI SPETTACOLO 01/03/24



Dai primi passi alla Scuola del Teatro d’Europa di Milano fino al palco del Teatro Duse. È una carriera lunga più di 30 anni quella che l’attore Maximilian Nisi ripercorre e racconta a Notizie di Spettacolo. Nisi sarà in scena, insieme a Maddalena Crippa, a Bologna dal 1° al 3 marzo con ‘Un sogno a Istanbul’: pièce di Alberto Bassetti liberamente tratta dal libro ‘La cotogna di Istanbul’ di Paolo Rumiz, con la regia di Alessio Pizzech. Sul palco, accanto ai due protagonisti, Mario Incudine che firma anche le musiche e Adriano Giraldi. Uno spettacolo prodotto da La Contrada Teatro Stabile di Trieste e da Arca Azzurra.


‘Un sogno a Istanbul’ parla di una storia d’amore, lo sfondo è la Sarajevo del 1997, reduce dal conflitto balcanico. Come si legano le due storie?

«È un’opera composta da più livelli. C’è una storia d’amore, che è il livello più esterno e che arriva subito allo spettatore. Sullo sfondo c’è una Sarajevo in macerie, che è quella del 1997, subito dopo la Guerra nei Balcani. In questo scenario Maximilian von Altenberg, il personaggio che interpreto, scopre e visita la città guidato da una donna, Maša, che vede per un giorno solo ma con la quale scatta subito una profonda attrazione. Questo legame nasce da un brano che Maša canta a Maximilian, una Sevdalinka: una canzone bosniaca che parla di un amore sfuggente fra due giovani, un amore osteggiato dai genitori e che è destinato a non realizzarsi. La donna poi si ammala e chiede all’amato di portarle una cotogna da Istanbul, convinta che solo grazie a quella potrà guarire. Questa ricerca li porterà a stare lontani tre anni, e quando l’uomo finalmente tornerà scoprirà che, nel frattempo, lei è morta. Ed è proprio quello che accadrà a Maša e a Maximilian. L’ epilogo della loro storia sarà proprio questo».


Cosa l’ha colpita o l’ha ispirata del romanzo di Paolo Rumiz?

«È una storia ricca di personaggi e di figure fortemente simboliche. Maša rappresenta l’Europa, la madre, quella da cui tutti noi proveniamo e a cui siamo fortemente legati. È una donna turca, figlia di partigiani, alcuni deportati nei campi di concentramento. Lui è austriaco e nella sua famiglia c’è un’ombra nazista, ma questo non ostacolerà l’amore tra i due. Quando Maša muore lui si trasforma, diventa un migrante dei sentimenti come lei era stata migrante nel passato, all’epoca del conflitto. Paolo Rumiz ha voluto raccontare in questo libro quello che era successo durante la guerra dei Balcani. Una guerra in cui, secondo l’autore, l’Europa ha perso la sua anima.  Tutti noi abbiamo permesso che il peggio avvenisse, ovvero la separazione e la frammentazione di un popolo, l’esatto opposto dell’integrazione e della coesistenza. Il mio personaggio ripercorre proprio questa storia, compiendo un viaggio nel tempo alla ricerca delle sue origini, nel quale si rende conto che tutti i suoi valori, la saggezza e la tranquillità che credeva di possedere in realtà non esistevano. Attraverso la morte della donna che lui ha amato, attraverso l’esorcizzazione della perdita e del suo dolore, Maximilian trova una nuova consapevolezza di sé e del proprio mondo interiore».


Comparare il romanzo al testo drammaturgico la aiuta ad entrare in dialogo con il personaggio che interpreta?

«Io vivo di immagini; tutto ciò compare nel libro, anche se non è stato contemplato da Bassetti nell’adattamento teatrale, fa comunque parte del mio patrimonio interiore. Per questo è fondamentale conoscere il testo originario. Naturalmente, è necessario capire a fondo il lavoro fatto dall’autore nel riportare o adattare la storia, i dialoghi, le immagini che vengono evocate dal testo. Conoscerli entrambi è una grande ricchezza perché ti permette di raccogliere dentro di te la sensibilità di due persone. Poi subentra la sensibilità del regista che ti mostra altri elementi ancora. È uno scambio continuo, che richiede tempo e profondità».


Lei si è formato prima alla Scuola del Teatro d’Europa di Milano diretta da Giorgio Strehler e dopo a Roma con Luca Ronconi. Di quegli anni cosa ricorda con più affetto?

«Parliamo di Strehler e di Ronconi, due nomi altisonanti e importanti. Sono stato privilegiato a poter lavorare con loro, e non perché adesso manchino registi di talento, ma perché mi rendo conto non ci sono più delle figure culturali di riferimento come lo sono stati loro. Erano veramente due personaggi molto diversi tra loro ed entrambi mi hanno, in qualche modo, forgiato. Poi ovviamente ho preso il verbo di Strehler, il verbo di Ronconi e l’ho unito alle tante altre esperienze che ho fatto, con molti altri maestri che mi hanno arricchito con nuovi stimoli.

Era un altro mondo. Un tempo, quando facevi uno spettacolo, avevi la sensazione di prender parte ad eventi culturali di altissimo livello. Dal pubblico che arrivava numerosissimo con i pullman alla grandissima attenzione da parte della critica nei giorni successivi al debutto. Oggi purtroppo questa dimensione non esiste più e anche lo spazio che viene dedicato dai mass media al teatro è sempre minore».


Negli anni successivi ha conosciuto anche Mauri, Giorgetti, Lavia, Scaparro. Quando si è più giovani come si sostiene il confronto con i grandi nomi del teatro?

«Dopo il diploma al Teatro d’ Europa ho dovuto prendere una decisione. Sarei potuto rimanere a lavorare al Piccolo, ma ho deciso di concedermi la libertà di provare e di sbagliare. Sono andato via e ho lavorato con Terzopoulos, con Scaparro, con Mauri fino ad arrivare nel ’95 a Roma, al corso di perfezionamento di Luca Ronconi. Ma anche da lì, dopo il periodo di formazione, ho scelto di andare via, perché a 25 anni si ha voglia di sperimentare, di lavorare con più registi e attori possibili, che personalmente mi hanno insegnato tantissimo. Queste esperienze mi hanno dato la possibilità di conoscere e di parlare linguaggi diversi, di interpretare personaggi differenti e di arrivare a prendere parte, ad esempio, in quel periodo a ben nove spettacoli in un anno. Esattamente quello che accadeva a un attore ai tempi d’oro. Se fossi rimasto fermo in un unico posto, conoscendo meno persone, accumulando meno esperienze, probabilmente non sarei potuto crescere come sono cresciuto».


Ha un titolo che le piacerebbe mettere in scena un giorno?

«Ci sono dei personaggi di cui mi innamoro e che mi piacerebbe portare sul palco. Dopo aver interpretato Cristo per vent’anni, ho sentito la necessità di interpretare Giuda, un’esperienza che è stata per me liberatoria. Nel futuro mi piacerebbe vestire i panni di Riccardo II di Shakespeare, un testo che amo moltissimo, che ho già affrontato, nel 1996, nel personaggio del Duca di Aumerle, con la regia di Gabriele Lavia e che ho visto in alcune magnifiche edizioni al Teatro Nazionale di Londra. Sono consapevole che in Italia la parte storica del testo interesserebbe poco, ma quello di Riccardo è un personaggio potente, affascinante, ricco di contraddizioni e di sfumature come, d’ altronde, tutti i personaggi shakespeariani».


Quali sono i suoi piani per il prossimo futuro?

«C’è un nuovo progetto che non era previsto e con cui mi dovrò confrontare molto presto: la direzione artistica del Festival di Borgio Verezzi. Un posto magico che conosco molto bene, in cui, negli anni, ho recitato in ben 13 spettacoli. Questo mandato è arrivato come un fulmine.Quest’estate avrei dovuto interpretare il personaggio di Valmont ne ‘Le relazioni pericolose’ di Pierre Ambroise Francois Choderlos de Laclos: un ruolo che desideravo affrontare da tempo, impegno che ho, però, dovuto declinare per essere presente il più possibile al Festival. Una scelta molto difficile, ma fatta perché desidero realmente prendermi cura di questo Festival per cercare di restituirgli quell’ eleganza e quel senso di necessità che negli ultimi anni, a parer mio, un po’ aveva perso».


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