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Macedonio e la magia del dialetto - IL PICCOLO 3/4/24


Francesco Macedonio al Teatro Bobbio il 3 Aprile 2024, per celebrare i 10 anni dalla sua scomparsa

Roberto Canziani


A dieci anni dalla scomparsa, si rinnoverà domani sera, nella sala del Teatro Bobbio, il ricordo di Francesco Macedonio, regista di Gorizia, adottato da Trieste. E nelle parole di tanti amici, colleghi, estimatori che hanno lavorato al suo fianco, si ripercorrerà, sicuramente, l'impetuosa ventata che dagli anni '70 in poi avrebbe trasformato il teatro in questa città. Ventata che lui aveva suscitato. Già dal primo soffio.


Ci voleva un po' di coraggio, un grano di spregiudicatezza. Macedonio, per gli amici Cesco, il grano e il coraggio li trovò. Millenovecentosettanta. Quell'anno, quando il Teatro Stabile gli propose, così per prova, di mettere in scena una commedia in dialetto triestino, lui non sembrò all'inizio troppo convinto. «Mi vergognavo, dico la verità. Per me il teatro era tutta un'altra cosa, e mai avrei pensato di occuparmi di teatro dialettale» confesserà decenni dopo a una studentessa che proprio su di lui stava preparando una tesi di laurea.

Il copione che Macedonio teneva in mano si intitolava "Co' son lontan de ti...", malinconica commedia scritta da Vladimiro Lisiani. Con quel testo l'autore aveva vinto un concorso promosso dall'Enal provinciale.


Nella poesia, nelle canzonette, nei racconti, nel varietà, il dialetto triestino trovava spazio e pubblico da lungo tempo. Bastino i nomi di Giotti e di Cecchelin. Nel teatro di prosa, invece, era trascurato. Il dialetto pareva affare da filodrammatica, da compagnie amatoriali. Lo Stabile del Friuli Venezia Giulia, che da pochi mesi si era insediato al Politeama Rossetti, avrebbe però voluto provarci. Doveva riempire quella enorme sala: millecinquecento posti. «Credevo che mi avrebbero preso in giro – ricordava Macedonio alla studentessa - e invece andò bene. Molto bene».

Così, da quel primo esperimento (nel cast appariva già Ariella Reggio), prese il via la rivoluzione che ancora oggi, spinge La Contrada a inaugurare ogni sua stagione con un testo in dialetto. La lunga eredità di Francesco.


Certo, ci sarebbero stati poi gli anni d'oro delle "Maldobrìe", con i record di spettatori al Rossetti: 18.746 per il capitolo iniziale. E poi ancora, alla Contrada, il sodalizio con Carpinteri & Faraguna per le felice stagioni delle "calze di seta di Vienna". Il lavoro a quattro mani con Tullio Kezich per una autobiografica trilogia, che ricostruiva una città di memorie ("L'americano di San Giacomo", "Un nido di memorie", "I ragazzi di Trieste") . E ancora il tentativo di un nuovo teatro in dialetto, con i testi autori-giornalisti come Roberto Curci ("Sariandole", "Tramachi") e Pierluigi Sabatti ("Vola colomba"). E oltre a questi, una cascata di titoli di cui lui era il regista.

In realtà Macedonio è stato molto di più di quanto la parola regista lascia oggi supporre. Già negli anni del dopoguerra, quando aveva intrapreso la strada dello spettacolo, dedicarsi al teatro, mettere insieme un compagnia, trovare i testi, portarli in scena non voleva solo dire scegliere un mestiere.


Allora i registi, e non solo loro naturalmente, erano dei costruttori di futuro. Di quel fut uro avevano una "visione". Oggi non è più così, ovviamente. A Macedonio, giovanotto di Gorizia (ma nato un po' per caso a Idria nel 1927) che negli anni di guerra si era nutrito di cinema e di pane, che aveva amato il circo, ma anche la "linguazza" e le soubrette di Cecchelin ("odoravano di talco"), il teatro era apparso come un luogo ideale per mettere alla prova la propria "visione".

Possiamo dire che ci riuscì. Riuscì a mettere insieme il suo carattere, tendenzialmente schivo, quello che lo aveva fatto restare per lungo tempo maestro elementare, e la sua vivacità di intellettuale onnivoro, la sterminata conoscenza di libri e pellicole, autori e attori. Da quella simbiosi di discrezione e ingegno nacque il regista.


Un mestiere non-mestiere, il suo, da ripercorrere domani sera, un decennio dopo che proprio a Gorizia, colpito a tradimento dalla malattia, a 87 anni, Macedonio è scomparso. Oppure da rileggere. Magari nei libri che lo studioso triestino Paolo Quazzolo ("Il teatro della poesia", 1998) e il giornalista goriziano Alex Pessotto ("Cesco e il suo teatro", 2014) gli hanno dedicato. Oppure recuperando la sua stessa voce, ma di narratore in questo caso, nei "Racconti di Idria" (a cura di Walter Chiereghin, 2015), quell'eden rurale in cui era nato. E di cui la sua poetica teatrale, sviluppata invece in una città, Trieste, ha sempre portato, in controluce, il ricordo, la radice. —



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