di Gianni Clementi
Regia e allestimento scenico Blas Roca Rey
con Blas Roca Rey, Pietro Bontempo, Andrea Lolli, Monica Rogledi
Musiche Enza De Rose Light designer Bruno Guastini Fonico Francesco Orrendo Produzione La Contrada Teatro Stabile di Trieste
Borgio Verezzi, piazza s. Agostino, 2 agosto 2024
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Scritto una ventina d’anni or sono, Calcoli, come afferma Gianni Clementi nella breve intervista a fine spettacolo, ha debuttato a Roma con la produzione di Ettore Scola per poi scomparire presto dai teatri della Capitale, ma, con il trascorrere degli anni, le tematiche trattate non solo non apparivano superate, ma un certo malcostume si andava affermando con sempre maggior evidenza. Ed ecco allora tornare questo testo, in prima nazionale, alla LVIII Rassegna del Festival teatrale di Borgio Verezzi con la regia di Blas Roca Rey, testo graffiante, grottesco, sopra le righe, oltre il limite del verosimile, se osservato nei contorsionismi politico-strategici cui l’onorevole Giorgio Martini sottopone sé stesso per farsi nuovamente eleggere. Bisogna forse davvero tornare ad Ettore Scola e alla sua visione cinica e disincantata dell’Italia post-bellica e che Gianni Clementi sembra voler portare alle estreme conseguenze e tornare al moralmente peggiore dei personaggi di quel capolavoro che è C’eravamo tanto amati (a Gianni Perego, l’avvocato che ha svenduto gli ideali della Resistenza per farsi ricco palazzinaro) per poter trovare un degno «padre» di questo politico da strapazzo. In una commedia dai continui ribaltamenti, un sottosegretario agli Esteri, impegnato a risalire la china nella campagna elettorale, decide di rifugiarsi con un’avvenente attrice ballerina, Patrizia, in una baita montana per trascorrere un fine settimana di piaceri e «rigenerarsi» in vista dell’agone politico che lo attende. Il tutto sarà organizzato dall’efficientissimo segretario particolare, Malinverni, che mette a disposizione la baita e risolve ogni problema logistico e burocratico del politico Giorgio Martini. Ma quando tutto sembra procedere senza intoppi, ecco l’apparizione di un misterioso malvivente incappucciato, dalla parlata tipicamente albanese, che lega i due amanti e inizia ad insultarli. Poi, l’irruzione di Malinverni, rientrato per comunicare a Martini un’importante notizia, complica ulteriormente le cose e il tasso di violenza sale in modo sensibile: il malintenzionato, che darà ad ognuno dei tre un soprannome, arriverà quasi ad obbligare Malinverni a sodomizzare l’onorevole, mentre lui si gode la donna nell’altra stanza. Verremo poi a scoprire che l’Albanese è, in realtà, tale Enrico Bresciani, vecchio compagno di partito di Martini e tradito da quest’ultimo quasi quarant’anni prima. Bresciani, detto Micetto, dovette scontare venticinque anni di carcere e ora, finalmente, ha modo di vendicarsi del compagno traditore che, nel frattempo, ha cambiato idee politiche passando ad un partito di destra, ed ha fatto carriera. Micetto, allo scopo di screditare l’ex compagno e troncargli la carriera, riprende con una telecamera la scena grottesca con l’onorevole in ginocchio legato alla sedia mentre ammette le proprie bassezze, il segretario in mutande, che sbandiera la propria omosessualità, e la ballerina discinta. E tuttavia, nell’ultimo scorcio dello spettacolo, si scoprirà che l’intera scena era stata architettata da Martini, con la complicità degli altri tre, per mostrarsi ai propri elettori in tutta la sua squallida umanità, fatta di falsità e di debolezze, ma, rivelandosi, in fondo, così simile a coloro che dovrebbero votarlo. Il filmato verrà diffuso e l’azzardata scommessa politica otterrà l’effetto sperato: gli elettori si immedesimeranno in Giorgio Martini che supererà ampiamente il rivale politico al punto da poter aspirare ad un posto di Ministro. Anche per gli altri le cose andranno benissimo: Patrizia otterrà un importante contratto, Malinverni farà carriera con un sostanzioso avanzamento retributivo e Micetto verrà ingaggiato dal mondo della pubblicità e dell’editoria. Si ride amaramente in questa commedia che mostra il ritratto impietoso di una classe dirigente rozza, ignorante e profittatrice, ma, insieme, riflette sulla fine degli ideali, abbandonati anche da coloro che, apparentemente, parrebbero difenderli ancora: Micetto, in definitiva, non è migliore degli altri. Ma, soprattutto, Clementi punta l’attenzione sulla spettacolarizzazione del grottesco e dell’osceno. Seduti in poltrona osserviamo questi squallidi soggetti chiusi dentro quattro mura ed assistiamo ad un gioco al massacro di quelli che sono i valori sacri dell’Umanesimo e della Politica. Un’operazione che, intelligentemente, mette in scena la macelleria dei corpi, il denudamento, la violenza fisica (Micetto, per costringere Martini a confessare le sue abiezioni morali, fingerà di tagliare un dito alla donna; l’onorevole, legato alla sedia come alla gogna, verrà minacciato di sodomia; Patrizia, una volta scoperto di essere stata ingannata da Martini, lo prenderà a calci, e anche il segretario e l’attrice dovranno parzialmente esibire le loro nudità). Ma non meno violenta e nauseante è la «struttura immorale» di questo politico che tradisce idee, principi, compagni, amici, moglie in nome della conservazione del privilegio e del potere. La Wunderkammer degli orrori morali e fisici cui il pubblico è costretto ad assistere e che parrebbe per un istante proporre una catarsi orchestrata da Micetto (ma quanto breve ed illusoria!), è il prodotto malato e viziato della nostra società, la distorsione etica cui, poco a poco, siamo stati abituati fin dal vespero della prima Repubblica. Se le spinte moralizzatrici, da «Mani pulite» in poi, hanno tentato di correggerne la direzione, la realtà dei fatti è stata più forte: ha trionfato il voyeurismo becero di matrice televisiva, la Politica si è trasformata in un desolante reality show in cui si premia l’esemplare politico più grottesco e ci si bea di ritrovare, amplificati e perdonati, i nostri difetti e le nostre debolezze. La scommessa di Giorgio Martini, alla fine, è vinta, ma è una vittoria che svela tutta l’impotenza e la delusione di noi che stiamo dall’altra parte del gioco e che, una volta di più, si vede sottratta la sovranità in cambio di un ruolo di spettatore posto dinanzi un caleidoscopio abilmente manovrato e ci fa partecipi di un protagonismo illusorio.
Blas Roca Rey ha saputo dare voce, gesto e corpo ad un personaggio complesso e sfaccettato e lo ha ritratto in modo fine, ponendone in luce sia il coté viscido ed immorale, ma anche la parte vitalistica ed istrionica, come si conviene ad un «politico» moderno. Allo stesso modo assai convincenti sono stati Andrea Lolli nel ruolo di un petulante ed astuto Malinverni, Pietro Buontempo che ha interpretato il triplo ruolo del criminale evaso, dell’ex compagno tradito e del complice nella farsa elettorale: a lui, persuasivo in tutte e tre i personaggi, va un nostro plauso particolare ed infine ci è parsa buona anche l’interpretazione di Monica Rogledi nel ruolo di Patrizia. Lo spettacolo scorre con un gran ritmo, i momenti di tensione e violenza sono ben sottolineati da un efficace uso delle luci e la scena fissa, con una montagna innevata che appare alla finestra, si rivelerà alla fine un set cinematografico allestito a bella posta: le montagne sono uno sfondo fittizio che verrà rimosso. La pioggia, abbattutasi a intermittenza sulla piazza s. Agostino, non ha impedito alla compagnia di terminare lo spettacolo e gli applausi convinti del pubblico hanno premiato un ottimo spettacolo destinato a proseguire in una tournée invernale cui porgiamo un meritato in bocca al lupo.
Mauro Canova
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