Si chiama “El nostro Angelo” lo spettacolo che aprirà la stagione del Teatro Bobbio domani e che resterà in scena fino al 27 ottobre. Tradizione rispettata anche quest’anno, con l’apertura affidata a un testo inedito in triestino, scritto e diretto da Davide Calabrese che ha lavorato con un cast capitanato da Ariella Reggio. «Con lei ci saranno Adriano Giraldi, Maurizio Repetto che è stato anche il mio insegnante di recitazione, mi ha aiutato a preparare il monologo per entrare alla Bernstein School of Musical Theatre di Bologna - afferma Calabrese - e poi Marzia Postogna, Anselmo Luisi, Enza De Rose e Giacomo Segulia. È uno spettacolo molto particolare per me ma molto bello da fare per il cast». E la particolarità sta nel fatto che non ci sarà solo la comicità, sulla quale Calabrese ha spesso dato riprova di essere un fuoriclasse indiscusso. «Mi è scappato fra le dita un testo “serio”, credo sia colpa della vecchiaia - spiega Calabrese -. Dopo anni di scrittura comica, di andare a rogito (come diciamo noi Oblivion) ogni 10 secondi per vedere se fa ridere, mi piaceva seguire il filone della storia fantastica, che fa sognare. Sono un grande amante di Zemeckis, Frank Capra e Spielberg ed è successo questo: ho scritto non un testo serio, ma un testo che non segue per forza la risata, che poi, con Ariella sul palco, è comunque assicurata, perché è bravissima ». E tutto parte dal centenario della radio.
Come si porta la radio in scena?
«Con gli Oblivion abbiamo sempre creato mondi sonori, che è tipico della radio. Nello spettacolo mi sono servito di un professionista come Anselmo Luisi che sta in una torretta ricreando, davanti agli occhi del pubblico, tutti i rumori degli attori. La storia è ambientata in uno studio radiofonico degli anni ‘60 con una compagnia di attori che deve mettere in scena un radiodramma con poche sedie e niente più».
Come è nata l’idea di questo omaggio?
«La radio ha sempre avuto a che fare con il teatro. Chi lavora in radio lo fa ostinatamente per una passione. È un mezzo che deve riuscire a entrare nelle case e per poterlo fare fino in fondo ci si deve sempre inventare qualcosa. La stessa cosa si può dire del teatro, che è meno mainstream della televisione. È arrivato il momento di unirli in questo spettacolo, live on stage». E chi meglio di Ariella Reggio può narrare i tempi dei radiodrammi in diretta, avendo iniziato a farli nel 1956 con Ugo Amodeo. «Amo moltissimo la radio, - spiega Reggio - la ascolto ogni sera perché dà la possibilità di divagare con la fantasia ed è riposante. Le immagini mi hanno stancata anche perché ormai ne siamo sovraccaricati».
Come vive questa nuova apertura di stagione da protagonista?
«Con Davide, che è un grande protagonista oltre che un amico, si lavora bene e si arriva bene alla prima, anche se lo spettacolo è complicato, non da vedere ma da fare. Ci sono tantissime cose dentro. L’idea di portare la radio in teatro è una sua intuizione, ma c’è molto altro. Quello che Calabrese è riuscito a fare è stato mettere insieme la radio e il teatro, unendo due mondi».
Cosa ha inserito l’autore che fa parte della radio dei suoi esordii?
«Ricordo benissimo i rumori che facevamo durante i radiodrammi. Usavamo i catini con l’acqua, e mille altri stratagemmi realizzati cose elementari per potere riprodurre i rumori che servivano per la storia che andavamo a raccontare: qui ci sono tutti ma sono ingigantiti perché servono per essere portati in scena».
Il mondo radiofonico spesso si appoggia sulle inflessioni dialettali per accentuare alcune sfumature ma la lingua dominante è l’italiano: come suona un programma in triestino?
«Da qualche anno a questa parte il dialetto stesso mi sorprende. Per anni ho lavorato su testi di Carpinteri e Faraguna o altri autori meravigliosi, ed erano racconti o commedie. Successivamente sono arrivati Alessandro Fullin o Davide Calabrese che hanno portato in scena un dialetto che si è trasformato a seconda dei tempi e per me anche questa è una sfida. E, come diceva Francesco Macedonio “se sei onesto con il pubblico, il pubblico ti ama”».
Cosa ricorda di allora?
«Raccontavo questo anche alla compagnia: quando ho iniziato si facevano le cose in diretta e mi ricordo che facevamo molto teatro per ragazzi. In un episodio, che spesso prevedevano storie di pirati, il protagonista aveva inavvertitamente smarrito il foglio con le battute e mentre le cercava noi continuavamo a fare battaglia, per permettergli di ritrovare il testo e ripartire. Oggi questa cosa può far ridere ma è un mondo ormai scomparso».
Cosa ha di particolare questo spettacolo?
«Oltre alla radio ho ritrovato anche il gioco. Sono la nonna della compagnia, e mi sembra di vedere giocare dei bambini, perché cambiano davanti ai miei occhi, come si faceva allora, che ognuno di noi diventava tanti personaggi diversi, dall’orco alla fata. Io ero specializzata in bambini anche quando non ero più bambina, con Ninì Perno».—
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